Rapporto città, fiume, campagna: ripartiamo da piazza Terzi
Pubblichiamo l’intervento del professor Silvano d’Alto, esperto di sociologia urbana, al convegno di Legambiente sul Consumo del suolo.
Più che un intervento è un saggio molto stimolante sulla realtà del nostro territorio. Ha il pregio, non comune agli studiosi di ambito universitario, di concludersi con una proposta su piazza Terzi, tutta diversa dalle previsioni del Piano Botta, che mette al centro della piazza le quattro ruote col megaparcheggio da 600 posti auto e un altro ipermercato.
PER UNA NUOVA LETTURA DELLA ‘CITTÀ DIFFUSA’
di Silvano d’Alto
Partirò per il mio intervento dalla trasformazione del rapporto città-campagna a Sarzana.
Alcuni dati ci danno una chiara misura del mutamento epocale.
Nel cinquantennio 1951-2001, nel comune di Sarzana
la superficie agraria è passata da 3157 ettari a 1212 con una diminuzione del 61,6%;
le aziende agricole sono passate da 1900 a 209, con una caduta dell’89%;
il settore primario che nel ’51 rappresentava il 28,8% della popolazione attiva, al 2001 è il 1,9%.
Cresce il settore terziario: nello stesso cinquantennio passa da 38,1% al 73,13%
(dati ISTAT).
La radicale trasformazione della struttura demografica del territorio ci conferma che non possiamo più parlare in senso tradizionale del rapporto città-campagna, ma occorre un punto di vista nuovo per la lettura della trasformazione avvenuta e per tentare di comprenderne l’evoluzione.
Trovo utile servirmi per tale nuova lettura del punto di vista termodinamico.
La termodinamica studia i processi di conversione del calore in lavoro e viceversa. La macchina termodinamica – il prototipo è la macchina a vapore – funziona come flusso di calore tra una fonte ad alta temperatura (ad esempio, il vapore in caldaia) del sistema e i serbatoi di scarico nell’ambiente, dove il calore, dopo essere stato trasformato in lavoro, diviene calore a bassa temperatura (15-18 gradi), perdendo la sua capacità di produrre ulteriore lavoro. La terra è un sistema termodinamico, l’universo è un sistema termodinamico, ogni organismo è un sistema termodinamico.
Nel flusso di calore l’energia si conserva, per il primo principio della termodinamica – l’energia del mondo è costante – ma si degrada. Questo fenomeno si chiama entropia. Il secondo principio della termodinamica dice appunto che “l’entropia del mondo tende ad un massimo” (Clausius, 1865). Si può riassumere il tutto così: l’ordine del sistema produce disordine nell’ambiente.
Non tutto il calore fornito ad una macchina termica ha la capacità di trasformarsi in lavoro. Prigogine distingue una entropia interna al sistema (i flussi ‘dissipati’, perduti, che non possono essere riportati alla sorgente calda con una ideale inversione di funzionamento della macchina termica) da una entropia esterna, quella che si produce con la trasformazione utile del calore in lavoro. L’entropia è una condizione nella quale evolve il mondo: è una cosmologia.
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Il rapporto città-campagna della nostra storia si può leggere come un sistema termodinamico:
l’ordine del sistema (la città) produce disordine nell’ambiente (la campagna), secondo il comportamento della macchina termodinamica.
Ma la campagna aveva elaborato la attitudine virtuosa di trasformare i rifiuti della città in risorse per la fertilità della terra. E lo stesso contadino, chiuso nella rigida distinzione di ceto, era a servizio della città e del suo benessere. Veniva tenuto nella sua condizione servile. La città della nostra storia ha dominato la campagna, ma la campagna ha saputo elaborare le sue regole, i suoi costumi, i suoi valori, la sua saggezza ecologica, dando vita, con la città, ad un sistema equilibrato, per quanto rigorosamente diviso in due ceti: cittadino e contadino.
Il rapporto città-campagna si attuava in condizione ben definite di tempo e di spazio: era delimitato nel tempo e nello spazio. Ogni rapporto città-campagna aveva suoi propri confini “sino al confine d’altro popolo che prende il nome d’altra città” (Cattaneo). Il disordine veniva riciclato in ordine in un contesto spazialmente definito.
Oggi intorno alle nostre città manca il serbatoio di scarico del disordine prodotto dalla città, perché quel rapporto ha cambiato modalità di funzionamento:
per eliminare il disordine ci sono le discariche e gli inceneritori. Ma raramente sono virtuosi, ossia produttori di uno scambio energeticamente positivo con la città (sono per lo più processi inquinanti). Con la globalizzazione i serbatoi di scarico sono dispersi sul pianeta, coerentemente con la grande frammentazione dei processi produttivi.
Nel territorio, oggi non abbiamo più né città né campagna, ma una crescente urbanizzazione continua e diffusa, chiamata appunto dagli esperti ‘città diffusa’ o sprawl urbano: per la forma disordinata e ‘sgangherata’ ( to sprawl = sedere sgangheratamente) con cui gli oggetti urbanistici si dispongono sul territorio. La ‘città diffusa’ continua a crescere indefinitamente producendo grandi quantità di entropia, cioè disordine che non riesce a controllare. La perdita del virtuoso serbatoio di scarico della campagna impedisce la chiara separazione tra sistema e ambiente: così il sistema produce disordine nei suoi stessi spazi di funzionamento.
Nella prospettiva termodinamica, la città della storia (sistema città-campagna) e la ‘città diffusa’ sono ‘sistemi aperti’, cioè scambiano materia ed energia con l’esterno. Ora questi sistemi, per funzionare bene, virtuosamente secondo natura, dovrebbero evolvere verso forme di equilibrio termodinamico, ossia tali che, da un certo punto in poi, la produzione di entropia, cioè di disordine, resti costante nel tempo. In altri termini, che la sua variazione nel tempo, sia uguale a zero. Era questa la condizione in cui evolveva nella nostra storia, il pregresso rapporto città-campagna.
Tali sistemi aperti sono detti (da Prigogine) sistemi dissipativi, perché funzionano con grandi input di energie e grande produzione di entropia (scaricata nell’ambiente), ma hanno una capacità particolare: quella di auto-organizzarsi. L’auto-organizzazione è un processo spontaneo in cui le differenti parti del sistema si cercano e si relazionano in forme nuove per produrre una nuova configurazione di equilibrio che chiameremo stato stazionario, ossia con produzione minima di entropia. Stato stazionario non significa dunque statico, ma che il sistema evolve in uno configurazione stabile di equilibrio del flusso termodinamico. In questa evoluzione il sistema ha la capacità di seguire percorsi imprevedibili, ossia capaci di produrre novità, cioè un fenomeno inatteso. Per giungere allo stato stazionario bisogna che il sistema non sia soggetto a continui input energetici, che ne impedirebbero l’assestamento nello stato stazionario.
Tornando alle città della nostra storia, la loro evoluzione relativamente lenta ci conferma che esse crescevano in progressive condizioni di stati stazionari. Ossia si trasformavano, ma poi si fermavano, per così dire riposavano, producevano relazioni piuttosto che espansioni. Con ciò, hanno saputo produrre straordinarie novità urbane: il palazzo pubblico, la cattedrale, la piazza del mercato sono stati momenti innovativi, sorti come momenti di novità e di risignificazione globale del senso urbano.
La ‘città diffusa’ è un sistema fortemente dissipativo con scarse capacità di autoregolazione: perché continuamente soggetta a nuovi input di energia che determinano continue variazioni di entropia, cioè incrementando sempre più il disordine. Si costruisce, si costruisce, si costruisce: per una spinta incontrollabile. Senza, o con scarse capacità, di autoregolazione, ossia di produrre ordine. La ‘città diffusa’ funziona con il consumo incessante di suolo. Limitare il consumo di suolo vuol dire ridurre l’entropia, diminuire la spinta dissipativa prodotta delle catene di flussi che in continuazione la investono.
Nella città diffusa occorre cercare relazioni – piuttosto che incrementi del flusso entropico – ossia andare verso lo stato stazionario.
La città diffusa, dovrebbe, come tutti sistemi viventi, adottare il principio di entropia minima, con l’obiettivo di fuggire da uno stato finale di equilibrio. La vita si svolge lontano dall’equilibrio, ma ciò deve avvenire nella relativa stabilità dei flussi di energia, non nella continua variazione del flusso entropico: che conduce ad una condizione permanente di caos, senza dare tempo al sistema di auto-organizzarsi (sfuggendo così anche alla deriva tecnocratica e autoritaria) e di produrre la novità. Con la conseguenza di cadere progressivamente verso una configurazione in cui non ci sono più differenze (perché manca una chiara definizione del rapporto sistema-ambiente) giungendo alla morte termica.
La città diffusa, con la sua ripetizione di oggetti sempre più indifferenziati e sempre meno relazionati – se non in termini meccanici – conduce necessariamente alla morte della città. Abbiamo visto nel film proiettato (“Il suolo minacciato”, ndr – qui il trailer) tanti capannoni vuoti, orribili negli spazi storici della campagna: esprimono la morte della città. E anche la morte della stessa campagna perché questa, come diceva bene Salzano, non ritornerà mai più nella sua capacità di ritrovare il senso della fertilità e della bellezza della terra produttiva.
A Sarzana, piccola città dove le relazioni sociali si mantengono molto strette e quasi faccia a faccia, il fattore centrale del divenire urbano è stata la rendita urbana: diffusa su una forma di proprietà del suolo estremamente frammentata. Non si tratta di un fenomeno tipico di Sarzana, perché è un dato costante del nostro territorio italiano.
Su questo nodo convergono i tre fondamentali agenti della trasformazione diffusa:
1) i nuovi, crescenti, bisogni della famiglia in espansione (la casa: per sé, per i figli per i nipoti, per l’affitto estivo);
2) le piccole imprese che lucrano la rendita dagli appezzamenti di terreno inedificati, anche modesti, intorno a nuclei edificati (ad es. i cosiddetti lotti di completamento) o ad aree interstiziali; infine
3) gli agenti istituzionali, o Amministratori, che hanno lo sguardo prevalentemente rivolto alla conferma del consenso. Così nasce quel fenomeno di densificazioni diffuse, frammentate socialmente e culturalmente improduttive, che impedisce qualsiasi disegno di vera trasformazione urbana e urbanistica del territorio.
Occorre dunque vedere e pensare il territorio della città diffusa con sguardo nuovo, anche se il disastro sembra irreversibile. Passare dalla linearità che semplifica e settorializza alla complessità che sostituisce la visione settorializzata e statica (la lottizzazione, la rigida e greve separazione funzionale) con l’approccio della complessità dinamica. Studiare non le cose, gli oggetti urbanistici, ma il senso delle cose: ossia i flussi che le definiscono in termini di relazione e di informazione, di nuovo pensiero e nuovo linguaggio. Cercare ciò che connette le parti tra loro (relazione, identità memoria) e ogni parte col tutto. Per ritrovare la città: come massimo valore della nostra cultura e della nostra civiltà.
Perciò occorre passare dalla città diffusa, sgangherata e sconnessa con i suoi elementi indipendenti gli uni dagli altri – monadi incomunicanti – ad un sistema di relazioni in cui le parti sono in simbiosi e si coalizzano in un tutto unico. A far nascere quel fenomeno che ha prodotto le città della storia: una nuova forma di comunità, oggi non più contenuta dentro le mura, ma spazialmente e socialmente aperta.
Dovremmo ora chiederci quali sono le relazioni nel territorio sarzanese che possono produrre nuova complessità di relazioni tra le sue parti, ossia come cercare la nuova città.
Tre relazioni mi sembra emergano come oggetto di riflessione e di indagine:
a) il rapporto orti-urbani–città,
b) il rapporto ‘parco-campagna’ – città,
c) il rapporto ‘fiume-città’ .
a) La diffusione del fenomeno orti urbani è molto evidente nel territorio di Sarzana. Esso non è solo un fenomeno locale, ma ormai diffuso in tutta Europa e nel mondo. Nello sprawl della piana sarzanese nasce tale fenomeno – per noi positivo – di una produzione agricola che non è definita dalla filiera mercantile, ma che esprime il piacere del rapporto pieno e libero con la fertilità della terra, con un impegno che ha spesso nel ‘dono’ dei prodotti coltivati la sua motivazione profonda. Entrare nel circuito virtuoso di una storia millenaria: dare-ricevere-scambiare.
Cercare un nuova alleanza tra città e campagna: anche con questo fenomeno, parziale ma già in atto, che nasce dalla dissolvenza del sistema contadino. Tale che, oggi, avrebbe bisogno di uscire dalla individualità solitaria dei comportamenti per approdare ad una fase di socializzazione di questo tipo di produzione. Dovrebbe essere il nuovo dono della campagna alla città, la quale dovrebbe ricambiare con ciò che storicamente è stata la sua genialità: la capacità di organizzazione cittadina, oggi perduta.
b) Il ‘Parco-campagna’ è una realtà che si sta lentamente e positivamente consolidando nel territorio sarzanese. Non si deve tradurre in mera conservazione, producendo indifendibili confini: ma essere ricerca di nuove relazioni al suo interno e con il più ampio territorio. Quando la domenica le strade del Parco-campagna si riempiono di visitatori nasce la città: perché c’è incontro, mescolanza, vivacità di comportamenti, memoria del passato. Inversamente, quando una pianta o un prodotto del parco-campagna entrano in città è tutta la città che, per un tempo, si fa campagna. Gli orti urbani potrebbero farsi principio di relazioni nuove tra città e campagna.
c) Il fiume è una costante ecologica della grande storia del territorio sarzanese. Nello storico rapporto città-campagna, il fiume è stato una straordinaria risorsa di cultura e di socialità. Ci dobbiamo chiedere cosa connette oggi il fiume a questa ampia, generale, realtà della città diffusa. Oggi sono sistemi incomunicanti. Qualche decennio fa si entrava a Sarzana dalla via Aurelia attraversando il ponte romano sul fiume Magra. Il percorso a fianco degli argini e l’attraversamento del fiume, ti faceva portare ‘dentro di te’ – nel contatto con la città, – il senso del fiume, la freschezza della sua vegetazione, la umidità del luogo. Entravi a Sarzana con uno spirito di rasserenante disposizione. Un mondo perduto.
Che dire invece della greve urbanizzazione di via Muccini – che si situa a qualche centinaio di metri in linea retta dal fiume – proposta dal progetto Botta che dimentica quella relazione?
Piazza Terzi dovrebbe in futuro – dimenticando Botta – assumere il valore di matrice di una nuova urbanità: producendo una ricca complessità di relazioni col territorio sarzanese e col mondo. Lì si è concentrata un forte memoria del passato: nel mercato ortofrutticolo, che serviva le piazze di Spezia e di Carrara, come momento di straordinaria vitalità urbana.
Riporto la bella memoria di Simona Giorgi per il blog di “Sarzana, che botta”: “il mercato di p.zza Terzi aveva 2 turni di apertura: uno all’alba e uno pomeridiano. Il nonno conosceva tutti e ogni volta non erano solo affari quello di cui si parlava, ma erano intensi momenti di confronto e di conoscenza. Al suo interno il mercato risuonava delle decine e decine di voci, maschili e femminili, e dei rumori di cassette spostate e pesate, di carrelli per il trasporto delle stesse e dell’acqua che serviva per mantenere freschi i prodotti. Nella medesima struttura si svolgeva, una volta all’anno, a Settembre, la tradizionale fiera degli uccelli, ora spostata nel viale della Stazione e nelle due piazze adiacenti.”
Sarebbe importante far leva su questo valore del rapporto città-campagna elevandolo a ricerca di relazioni col mondo, in particolare con l’Europa: fare di Piazza Terzi il luogo di incontro dei prodotti del rapporto città-campagna della storia europea. Nei quali si esalta il senso del rapporto faccia a faccia e del prodotto artigianale. Nuovo Mercato, Festa, Spettacolo: un Teatro all’aperto, di natura e di cultura, matrice di un nuovo senso della città e novità nella competizione tra città.
Questa dovrebbe essere la nuova Piazza Terzi.