Sarzana, che Botta!

« Il fine di ogni associazione è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo: libertà, proprietà, sicurezza e resistenza all’oppressione »

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789


D’Alto: un imbroglio parlare di partecipazione a progetti definiti. Rileggiamo De Carlo

di Silvano D’Alto

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L’articolo di Franco La Cecla su ‘Avvenire’ e le interviste a Ray Lorenzo e a Mario Botta sono una bella occasione per riprendere il tema della partecipazione e continuare a riflettere sul processo di formazione di un progetto urbanistico e in particolare sulla progettazione degli spazi urbani.

Liberiamoci dall’equivoco che avere sdraiato la Torre sia stata espressione di un processo partecipativo.

Ne è stata la vera negazione: perché ridurre il motivo del contendere alla sola ed eminente presenza della Torre, ha significato introdurre un piccolo, ma vistoso cambiamento, per confermare un piano inaccettabile sotto il profilo urbanistico, sociale, culturale. Un imbroglio in parole povere.

La partecipazione alla formazione dei piani e degli insediamenti sta vivendo un momento significativo in Italia come bene ci informa La Cecla nel suo articolo. Come tutti i processi ha avuto i suoi inizi e i suoi casi emblematici: tipico il caso del Villaggio Matteotti di Terni, che fu una affermazione di principio e pratica di grande interesse non solo allora (si costruì tra il 1969 e il 1975) ma anche oggi, non per farne un modello partecipativo ma per riflettere sulle forme del rapporto tra cittadini, progettista, committente e in definitiva, sulla qualità degli spazi urbani prodotti, cioè su un vecchio, cruciale, problema urbanistico: il rapporto tra quartiere e città.

L’avversione di Botta al processo partecipativo, che lui ritiene – se bene ho capito – a rischio di demagogia, viene sostenuta proprio citando il caso del Villaggio De Carlo di Terni, dove, secondo il suo punto di vista, la partecipazione è stata un fallimento. Non fu così. La partecipazione fu, in quel caso, un esplicito assunto di partenza del progettista. Per avere una idea di come si svolsero le cose si può facilmente seguire la divertente intervista a De Carlo di alcuni anni fa (ora De Carlo non c’è più) e una tesi di Hermann Schlimme da www.storiaurbana.it (qui) che tende a considerare marginale la partecipazione degli utenti al progetto del quartiere, già completamente definito – egli sostiene – da De Carlo in sei punti tuttora molto interessanti e che accludo (qui) pensando siano molto utili anche per ripensare il caso di Sarzana.

Oggi la partecipazione ha modalità e peculiarità nuove e assai più complesse rispetto al caso di Terni. Quello fu in sostanza un villaggio industriale, commissionato da una grande industria ad un architetto, molto simile al caso dei Villaggi industriali del XIX (Larderello di G. Michelucci, Crespi d’Adda, Villaggio Leumann a Torino, Nuova Schio in Italia; Port Sunlight, Bournville, Saltaire in Inghilterra). Fu un processo partecipativo che aveva i limiti che il tipo di committenza stesso – non pubblica, ma privata, per realizzare case per i lavoratori dell’industria – implicava.

Nel presente il processo partecipativo ha un altro respiro, con una maggior consapevolezza politica da parte dei Comitati di cittadini che si oppongono a processi di uno sprawl – sviluppo ‘sgangherato’ degli insediamenti – pervasivo, senza memoria, senza relazione, senza identità.

Il piano Botta è fuori dalla prospettiva partecipativa: non la gradisce, non ci crede, perché nasce tutto d’un pezzo dalla mente di Minerva, dea della Sapienza.

Botta si concepisce al servizio del committente senza interferire sulle scelte urbane che non ritiene di propria competenza. Posizione rispettabile per un professionista. Ma la accetta evitando ogni possibile forma di discussione (è tempo perso, il consenso deve essere raggiunto il più possibile rapidamente, forse urgono progetti più complessi e interessanti). Perciò, a Sarzana, si affida al contenuto del vecchio Piano regolatore, senza discutere il senso degli interventi da attuare in rapporto al futuro urbano della città. Siamo dentro l’idea dell’architetto demiurgo – o comunque fedele servitore del potere – che risolve i problemi con la presentazione della sua idea (ma come non accorgersi del profilo ormai inadeguato, francamente speculativo, delle scelte?).

Come sostiene Ray Lorenzo “la progettazione partecipata dovrebbe cominciare prima che siano concepiti i piani di sviluppo delle aree urbane”.

Il piano del ‘94 era vecchio e lasciava, già in origine, ampie perplessità. Si doveva cogliere l’occasione per rivederlo, non per consolidarlo pesantemente alla vigilia della sua scadenza.

Fu un errore e gli errori possono essere mortali: cioè possono uccidere le città. Qui si sta esaltando il senso della periferia, non quello della città. Botta difende le forti volumetrie, sostiene, per contenere l’invasione della campagna. Ma così, a Sarzana si urbanizza tutto: città e compagna con tanti saluti sia all’idea di città che a quella di campagna.

Ricominciamo dal rapporto città-campagna.

Silvia Minozzi ci ha riportato i contenuti della relazione di Salzano al Convegno delle Cinque Terre. Ripartiamo dal rapporto città-campagna, oggi così mutato rispetto al passato, ma così centrale per tenere uniti due termini da non perdere nella loro essenziale relazione. I piani regolatori ci vuole tempo per realizzarli. Si può ancora pensare e discutere, anche se le scelte sono fatte. Proprio perché sono fatte e non ci piacciono. Così si può costruire il futuro, senza adagiarsi sulla pesantezza del presente.

Così si può anche evitare la demagogia – come chiamarla altrimenti ? – di costruire pesantemente in città, per ‘salvare’ la campagna.

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Data
sabato, 9 gennaio 2010

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