Sarzana, che Botta!

« L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione (...). La Costruzione è per tener su: l’Architettura è per commuovere »

Le Corbusier


Silvano D’Alto: Sarzana tra colture e culture

Abbiamo chiesto al professor Silvano D’Alto, già docente all’Università di Pisa e autorevole membro del gruppo tecnico del Comitato, di scrivere alcune riflessioni sul rapporto tra Sarzana, la sua cultura urbana e le colture agricole, gli spazi vitali ed il paesaggio, il commercio e le tradizioni. Lo ha fatto con l’esperienza del sociologo urbano, la passione dell’architetto, l’amore del residente, con l’occhio rasserenato dalle emozioni che ogni volta provocano certi angoli della città, “i selciati luccicanti” dalla pioggia “come un organismo vivo”, le altane, gli atrii, le atmosfere urbane. I ricordi di una campagna aperta, morbida, ricca, ora ridotta a tanti orti-giardini, occupata da ipermercati, villette e capannoni industriali. Un sogno che non va confuso con un desiderio regressivo alla campagna d’un tempo, alle fatiche e anche alle miserie di quel mondo contadino, ma con il desiderio di fermare l‘”estinzione dei campi”, la perdita irreversibile di una “cultura”, di un modo diverso di vedere ed osservare il paesaggio, dalla città, dalle colline. Un grande “svantaggio” ambientale ed estetico ed assolutamente improduttivo, che potrebbe essere tradotto in un’occasione di reddito e realizzazione di un mercato ortofrutticolo a chilometri zero come avviene in altre città d’Italia e d’Europa.

Roberto Mazza
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SARZANA TRA COLTURE E CULTURA di Silvano D’Alto

Sarzana ha una storia, che non è solo quella della città ‘storica’, ma è del rapporto città-campagna.

La campagna di Sarzana è stata un mondo straordinario: i suoi ortaggi hanno rifornito tutte le piazze vicine, in particolare quella di Spezia. Nel passato, era numerosa sia la presenza di aziende agricole di medi e piccoli agricoltori, sia la presenza di grandi proprietà, spesso ricche di blasone (quindi una nobiltà terriera). La ricchezza prodotta dalla campagna si è riverberata sulla città di Sarzana: nella bellezza dei suoi palazzi (che indicano grandi aperture a realtà urbane esterne), nel carattere delle sue strade che trovano rapporti vitali con le piazze (esprimono il bisogno di ‘vuoti’, di spazi aperti; nella densità sempre cogente dei pieni della città medievale!).

I residui dell’antico rapporto città-campagna si colgono ancor oggi nello stile di vita di Sarzana – quella ‘pacata’ urbanità che si respira nei suoi spazi, e che il progetto Botta stravolge! – si colgono nel mercato del giovedì che pervade tutte le strade e parte delle piazze nella città ed è incontro, presenza, movimento di genti diverse, convergenti nel luogo.

Nella città è confluita, lungo i secoli della sua storia, la ricchezza mercantile, agraria, industriale per produrre l’ordine urbano (la città che viviamo); nella campagna si riversavano i rifiuti che la città produceva e diventavano concimi trasformati in ‘derrate’. Un rapporto virtuoso, ma anche di dominio della città sulla campagna. Il sistema città si ordinava scaricando disordine nell’ambiente (campagna): un perfetto rapporto termodinamico. Oggi quel rapporto è radicalmente mutato: la campagna della storia non c’è più. C’è una realtà ‘altra’.

Alcuni dati dei tempi recenti (dal dopoguerra) ci aiutano a farci un quadro più circostanziato della grande trasformazione. Dai dati ISTAT si ricavano alcuni indicatori: dal 1951 al 2001 (ultimo censimento) la superficie agraria è passata da 3157 ettari a 1212,68 con una diminuzione del 61,6%; le aziende agricole del Comune di Sarzana sono passate da 1900 nel ‘51 a 209 nel 2001, con una caduta dell’89%; il settore primario rappresentava nel ‘51 il 28,8% della popolazione attiva, al 2001 è l’1,9%. Cresce il settore terziario: nello stesso cinquantennio passa dal 38,1% al 73,13%. Una evoluzione che riflette la dinamica nazionale dei settori di attività e la mutazione del rapporto città-campagna: ma che qui, come altrove, determina non solo variazioni economiche, ma sociali e culturali. Sono queste che ci interessano.

La campagna si è trasformata lentamente – ma inesorabilmente – in campagna urbanizzata. La diffusione dell’urbanizzazione ha sottratto ampie superfici all’agricoltura: sempre più sostituita dalla grande distribuzione. La produttività agricola si è trasformata in rendita urbana, assai più redditizia e appetibile. Sulla capacità di gestire tale trasformazione si è giocato e si gioca tutto il processo del consenso politico: per governare occorre accettare la tendenza alla urbanizzazione diffusa.

I tentativi di dare regola e misura alla diffusione dell’edificato sono rapidamente rientrati. Il blocco degli interessi è capillare e salda in unità le diverse radici da cui questi provengono: proprietari di terra, piccole imprese, area del consenso. Il tipo di sviluppo che ha caratterizzato la piana non è soltanto edilizio, ma commerciale, piccolo industriale.

L’occupazione dei terreni è avvenuta nel maggior disordine, senza principi di tipo urbano e urbanistico. Uno sviluppo ‘sgangherato’. Giusto l’uso del termine sprawl (che in inglese significa: sedere scompostamente, in modo ‘sgangherato’).

La variante Aurelia è l’immagine eloquente dello sprawl. Quando cerco il servizio pubblico delle Poste italiane dalla variante Aurelia, sbaglio sempre strada: un piccolo cartello indicatore è nascosto da un grappolo di insegne private.

Ora l’area agricola della storia è stata frammentata in centinaia di piccoli appezzamenti che stanno trovando una loro forma e misura. C’è un nuovo rapporto fra case e le limitate aree di coltivazione all’intorno. La coltivazione della vite, dell’ulivo, di piccole quantità di ortaggi danno una struttura nuova al territorio della piana. Molte di queste piccole aree di coltivazione stanno assumendo un loro ordine: sono coltivate con una cura domestica, che sorprende e che le rende simili a giardini o a orti: non sono più campi, ma – proprio facendo riferimento alla strutturale caduta del settore primario e all’avvento dominante del terziario – si possono indicare col termine di “orti urbani”.

Questo fenomeno è ormai diffuso in Italia e in Europa: l’interesse per questo nuovo tipo di realtà cresce di continuo. La vicinanza del luogo di produzione dei prodotti orticoli al luogo del loro consumo è essenziale per avere una diversa qualità del prodotto. Ma è soprattutto essenziale il fatto che questo nuovo rapporto di tempi e di spazi diventa la riscoperta del rapporto con la terra e con la relazione che unisce uomo a uomo. Un frutto maturato sulla pianta ti lega alla fertilità della terra, al suo rapporto con la luce del sole, alla cura posta nel custodire la crescita e la maturazione del prodotto.

Ma è di grande interesse anche il rapporto di tipo sociale ed economico che alimenta queste iniziative informali: si formano solidarietà nuove, interessi nuovi, difesa di specie vegetali che stanno scomparendo. Il territorio se ne giova, perché proprio da questi comportamenti marginali si introducono valori ‘diversi’ nello sprawl della piana. C’è, nello sguardo rivolto a questi ‘orti’ dalla posizione un po’ panoramica del treno che li attraversa, il senso di un paesaggio che sta per originarsi.

Difendere queste realtà embrionali della nuova campagna, che si sostituisce all’ordine obsoleto del vecchio rapporto città-campagna, è un valore che può dare spunti per costruire un nuovo e innovativo rapporto di città e campagna che oggi si potrebbe definire – prendendo spunto da un neologismo di qualche successo –‘post-moderno’.

Veniamo alla città e alla area di Piazza Terzi.

Una piazza che riporti la ‘campagna’ in città.

L’edificio che sta per essere demolito in Piazza Terzi era il mercato ortofrutticolo all’ingrosso, in cui confluivano i prodotti della campagna sarzanese. Era il punto di massima convergenza pratica di città e campagna. Resta ancor oggi un segno della identità della città di Sarzana. Piazza Terzi è un relitto della storia urbana: ma resta ‘luogo’ che ha memoria, identità, relazione (oggi ospita attività associative) per usare la terminologia di Marc Augé. Piazza Terzi non è uno spazio morto, ma una realtà simbolica che conserva in se stessa un suo significato e un senso vasto. Non è un capannone, ma una dimensione della memoria collettiva della città di Sarzana. E’ proprio questa dinamicità e storicità urbane e il loro valore simbolico (cioè relativo alla ‘rappresentazione’ del rapporto tra città e campagna: non senso marginale, ma ‘visione del mondo’) che ora ci interessa.

Di questo dovrebbe ‘raccontare’ il progetto del nuovo cuore urbano. Sarebbe di grande interesse per la città che il cuore della nuova Piazza Terzi si potesse ricondurre a questo ‘valore’: come coagulo di un nuovo rapporto città-campagna: ossia come energia circolante nell’esperienza della futura pratica spaziale di Piazza Terzi. Una identità da costruire per una ricchezza di vita, di novità, di valori: tutto ciò orientato a rifondare il senso del rapporto con la città. Valore che va scoperto, in primo luogo dentro di sé: appunto come nuovo circuito di senso della Piazza e , attraverso di essa, di tutta la città. La nuova Piazza dunque come embrione di valori nuovi: opposti a quelli dello sprawl, che sembra avere trovato il punto di massima forza proprio in quella immagine del Grattacielo e della Piazza coperta che provoca comprensibili dinieghi.

I prodotti degli “orti urbani” ‘facciano’ la piazza. Occupino con le loro bancarelle (non nei negozi, costosi e bui) il piano della piazza: che sia aperta e solare, proprio nel senso che la luce solare – principio di tutte le energie rinnovabili e non rinnovabili – inondi la piazza. E sia “Piazza degli orti urbani”: valore del rapporto con la terra e con il cielo. Come riappropriazione del senso della piazza: cioè come valore della comunità. Il valore della piazza nella storia urbana dell’Occidente è complesso. Ma due elementi caratterizzano il cuore della città: come mercato e come luogo in cui il cittadino si sente tale: soggetto di storia e di diritti. Agorà, la piazza di Atene, per antonomasia prefigurazione di tutte le piazze, significa, nella sua etimologia: “io parlo in piazza”. Questi due valori dovrebbero essere il senso della ‘novità’ urbana per Sarzana. Ma il mercato, come valore nuovo, non può che esprimere questo senso nuovo del rapporto dell’uomo con la terra: e con esso, nuovi complessi circuiti di valori, di una civiltà diversa. Una piazza che sia un embrione, non una realtà già adulta.

Essa che deve crescere, essere sostenuta, alimentata con il contributo di tutti: per una realtà urbana nuova.

Una riflessione analoga si potrebbe fare per l’artigianato, di cui Sarzana è testimone frequente: nei vari tempi dell’anno, nelle sue strade nelle sue piazze. Non solo l’artigianato della nostra tradizione. Ma anche di quegli ambulanti di colore, presso i quali ho visto – adagiate su teli per la strada – non solo riproduzioni di maschere e forme stereotipe, ma anche oggetti etnici di indubbio valore. Anche questa è una ricchezza che andrebbe sapientemente coltivata per farne un momento non solo di mercato, ma di riflessione culturale. Si dirà: ma non basta la città esistente? No, non basta. Occorre una scelta di campo: che proietti la città verso sensi nuovi e innovativi. La nuova piazza sia un simbolo di valori nuovi, non semplicemente mercantili. Ad esempio: un centro culturale multietnico, orientato proprio al commercio di oggetti di qualità – antichi e nuovi – nella nuova piazza Terzi potrebbe dare senso non solo alla organizzazione di questo mercato, ma anche produrre un ‘senso urbano’ più aperto, solidale, culturalmente eterogeneo e vivace.

E infine, perché Piazza Terzi sia viva, sia urbana, bisognerà valicare la ferrovia. Per la prima volta progettare con convinzione e consapevolezza il legame tra le due parti divise della città di Sarzana. Questo darebbe un ‘respiro’ nuovo alla Piazza e un senso nuovo alla città.

Ovviamente queste mie considerazioni non esauriscono le funzioni e il senso della futura Piazza Terzi, che avrà altre attività e funzioni.

Ma il senso è sempre un senso globale: un modo di essere e di percepirsi come attori di una storia nuova.

Se questa non si saprà farla esistere, saremo di fronte ancora una volta solo alla rendita (che in questo tipo di società non si può escludere, ma non dovrebbe essere l’unico né il principale obiettivo). Ed ai suoi stereotipi: nel modo di abitare, di camminare, di sentirsi estranei – anche se materialmente partecipi – al senso vero della città.

Ancora una volta solo consumatori, senza averne l’aria.

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Data
domenica, 3 maggio 2009

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