Intervista di Mario Botta sul Corsera dell’8.4.2009
«Le città italiane ed europee
hanno bisogno del loro passato»
«Non bisogna avere fretta, ma ricostruire soltanto quando ci sarà un’idea davvero chiara su come dovrà essere la nuova città dell’Aquila ». L’affermazione di Mario Botta, l’architetto svizzero (è nato a Mendrisio nel 1943) definito «tra i più celebri progettisti della contemporaneità » e più volte in odore di Pritzker Prize (il Nobel dell’Architettura), all’apparenza potrebbe anche sorprendere. Ma poi, a guardarla bene, non più di tanto perché, come lo stesso Botta tiene subito a precisare, «naturalmente tenendo conto di quelle che sono le necessità primarie delle persone colpite dal terremoto ».
«Essenziale, prima di formulare ogni ipotesi, è innanzitutto sapere lo stato reale della città, il suo grado di distruzione; appunto per questo dico che è meglio aspettare, la fretta è una cattiva consigliera, soprattutto in queste tragedie, perché spinge a voler ricostruire tutto e subito e non sempre questa è la via giusta da seguire».
In questo senso, allora, è meglio aspettare? «A L’Aquila, come in tutte o quasi le città italiane, ci sono certo i palazzi, spesso segnati da una grande storia e da un’immagine pubblica e ci sono i ponti: quelli, certo, vanno ricostruiti in tempi stretti. Ma poi ci sono anche aree distrutte che forse non è così necessario ricostruire ex novo. Il compito di chi dovrà ripensare a L’Aquila dopo il terremoto è molto difficile perché, da una parte bisogna ridare alla città la propria funzione; dall’altra, bisogna ritrovare la memoria di quello che è stato distrutto; dall’altra parte ancora è necessario guardare verso il futuro. E infine—conclude Botta—bisogna saper mantenere la memoria di questo evento per quanto tragico». Perché, dice, «Anche a Messina c’è un prima e un dopo il terremoto».
Allora come ricostruirebbe Mario Botta una città come L’Aquila? «Innanzitutto mantenendo intatta la memoria del prima e del poi. Quindi non ricostruirei mai una new town, un’ipotesi impraticabile soprattutto in una realtà come quella italiana, in cui le città non sono certo costruite secondo il criterio della funzionalità, ma piuttosto della memoria; le nostre sono città indissolubilmente legate al passato, con un’identità storica e culturale unica ». E allora, il primo compito, per Botta diventa così «quello di ricucire lo strappo provocato dal terremoto perché non si dimentichi, ma al tempo stesso anche non perdere un’occasione buona per ripensare la città, non tutta la città, ma un quartiere, magari degradato».
La memoria, la storia, il passato, l’appartenenza sono d’altra parte elementi costanti del pensiero di Botta: «L’unicità di tutte le nostre città, parlo di quelle italiane ma anche di quelle europee, rappresenta un patrimonio incredibile in un momento in cui la globalizzazione, il pensiero unico comincia a mostrare le proprie incertezze». E prosegue: «Il nostro orgoglio di cittadini del Vecchio Continente nasce proprio da questo sentirsi parte di una realtà unica. Le new town possono andare bene in Asia o in Giappone, ma non va neppure bene ricostruire città “in stile”, senza memoria e nemmeno senza segni di modernità».
Dunque, il dialogo prima di tutto. Un dialogo ricucito senza fretta: «Non bisogna ricostruire “tutto e subito” perché c’è l’emergenza; bisogna riflettere, ritrovare i nostri legami, le nostre radici, la nostra storia». In questo (ma Botta tiene subito a chiarire «non voglio essere assolutamente frainteso» perché questa «è una tragedia davvero grande») «il terremoto può rappresentare un’occasione straordinaria per ripensare anche il futuro delle nostre città».
Stefano Bucci