D’Alto: La qualità urbana tra passato e modernità
Cari amici del Comitato, apprezzo molto questa iniziativa del blog che avete aperto. Aiuta a partecipare nel campo dell’urbanistica così poco seguìto quando si tratta di strumenti – con le sorprese quando le scelte si attuano – ma così vivo quando i progetti diventano visibili e comprensibili. Ho assistito giovedì alla presentazione del progetto di via Muccini e dell’ex stazione autobus. E’ stato un incontro civile e interessante che la presenza del Comitato ha saputo rendere vivo e dibattuto.
Queste le mie considerazioni – che avrebbero bisogno di ulteriori riflessioni e analisi – sull’incontro di giovedì pomeriggio.
Il primo problema, che forse li contiene tutti, è l’alta edificabilità delle due aree – via Muccini e la ex stazione autobus – di cui si compone il piano del 1994. L’indice di 0,87 su una superficie di piano di 16.000 mq e con una superficie utile di 54.000 mq di edificato è stato presentato dall’architetto Botta come modesto: ma non è modesto. Il volume complessivo di progetto nell’area di intervento – composta da due parti nettamente distinte – è di circa 200.000 mc. lordi. Questa volumetria dà un indice di circa 3,7 mc/mq. Si tratta di un indice urbano di tutto rispetto, anzi direi decisamente pesante per un intervento nel perimetro: o comunque nell’area circostante, di un piccolo prestigioso Centro Storico.
Ma gli indici dicono poco quando si tratta di entrare nel merito della qualità urbana, in una contenuta – assai contenuta – città, tuttavia carica di storia. Mi è venuto di scrivere ‘prestigioso’: e qui è la prima, non piccola divergenza, dal pensiero di Botta, che – vorrei aver capito male – ha indicato la città della storia pregressa come la “città dei morti”. Vorrei aver capito male: perché il rapporto con la città della storia è il dialogo con le generazioni che ci hanno preceduto. È un dialogo vivo, del quale oggi abbiamo assolutamente bisogno. Tanto più quando si tratta di spazi urbani: che incorporano, in un tragitto millenario, il senso della città . È un valore assolutamente originale per ogni città: è, per eccellenza la massima e più sottile dimensione simbolica, vera partecipata rappresentazione del mondo. È questo che ci attrae nella storia delle nostre città europee.
Le città del passato non sono città dei morti. La città dei morti precede la città dei vivi – osservava acutamente Mumford – perché di quelle radici abbiamo assolutamente bisogno. Il dialogo con la storia del passato non significa ripetizione di forme: tutt’altro, significa cogliere nel passato i valori della ‘novità’ urbana, le ‘emergenze’ di nuovi sensi dell’urbano, che le generazioni passate hanno saputo trasmetterci con la costruzione delle città. Oggi, occorre essere innovativi e creativi come le generazioni più vive della storia che hanno prodotto la città di Sarzana.
Qualche osservazione nel merito del progetto. Comincio da via Muccini. Mi chiedo: perché costruire – come ingresso a Sarzana dalla via Aurelia e dalla autostrada – una strada che si percepisce come aggressiva, pesantemente edificata con palazzi di 7 piani. Dai disegni non si riesce a cogliere un felice senso urbano, per esempio il percorso di un accogliente e conviviale ‘boulevard’.
Meglio – a mio giudizio – una strada più semplice, modesta, serena, con una edificazione leggera: un ingresso che si mostri sensibile all’avvicinarsi ad un Centro antico del valore di Sarzana. A Sarzana c’è una bellissima porta urbana: Porta Romana. Ancor oggi, l’ingresso a Sarzana da viale Mazzini, esterno alla città – malgrado la perdita del magnifico viale di platani e la condizione attuale di viale trafficato – resta pieno di fascino: per la bellezza della porta barocca, per il delinearsi leggero e trasparente, in lontananza, del campanile della cattedrale. La porta non è un ‘portale’, ma un percorso di avvicinamento. Solo dopo, si varca una soglia. Si è preparati a varcarla.
La torre – che l’architetto Botta definisce ‘torretta’– è il maggiore di tre edifici, costipati in una piccola area al confine e a ridosso della linea ferroviaria: che il progetto propone come ‘nodo di interscambio’ (ahimè, gli stereotipi dell’urbanistica!). Gli altri due sono: la piazza coperta e la stazione autocorriere. Tre edifici che si contendono lo spazio fisico: tre oggetti che, a me sembra, si ingombrano reciprocamente perché manca lo spazio: quello fisico e quello urbano.
Non c’è dubbio che questa torre si inserisca nella nuova forma di competizione fra le città: per costruire il segnale della propria originalità e affermazione. Una torre, se assunta come valore – come segno di una emergenza ‘significativa’ – deve avere un messaggio. Quale è il messaggio che la torre comunica? È il segno che avvia ad una stratificazione urbana nuova? cioè ad un spinta verso spazi tendenzialmente esclusivi, sulla base di una domanda che proviene dall’esterno (residenziale o terziaria)? i cui costi – non solo vantaggi – finiranno per ricadere sull’area urbana esistente e sul territorio? In che misura risponde al bisogno locale di razionalizzazione dei servizi amministrativi? O le dimensioni extra-locali saranno di gran lunga prevalenti?
E’ una torre orgogliosamente chiusa, stereometrica, compatta: come l’immagine dei serbatoi di rifornimento per l’acqua a cui l’architetto dice di essersi ispirato. È una torre che ‘contiene’ piuttosto che ‘accogliere’; si ‘isola’ piuttosto che ‘dialogare’; preferisce l’enfasi alla comunicazione. Nel rendering proiettato giovedì scorso, lo sfondo della torre era dato da un cielo di nuvole bianche. Così la torre e gli altri edifici apparivano sradicati dalla terra. Lo sfondo non doveva essere quello: bensì la città storica. Il rapporto figura-sfondo avrebbe dovuto dire l’interazione tra l’attualità e la memoria. Ma questo non si poteva fare. Altrimenti la torre avrebbe svelato il suo segreto: di fattore de-simbolizzante della città esistente.
Quale risulterà infatti il dialogo con le ‘emergenze’ e con gli spazi storici: di dialogo o di dominio? soprattutto con il leggero, arioso, snello, trasparente campanile della Cattedrale? Con la Cittadella e, più lontano, con la Fortezza? Con le altane che si alzano trasparenti sopra alcuni edifici del centro storico? E anche con gli spazi a terra: con la spazialità elegante e invitante degli androni di via Mazzini? Il paesaggio urbano di Sarzana viene radicalmente mutato dalla torre. Si deve tutti – tutta la cittadinanza – essere consapevoli di quello che sta accadendo. Perciò è indispensabile che la cittadinanza si pronunci. Che la diversità delle idee si confronti e si scontri. Senza ‘insaccare’ il progetto.
La ‘piazza coperta’– così definita nella presentazione – è uno spazio a pianta rettangolare, limitato, lungo i due lati lunghi, da due ‘stecche’ rigide di edifici, ammorbidite da due concavità simmetriche. Mi chiedo se abbia la forza, la ricchezza di luoghi e di spazi, l’ariosità di una piazza vera. Più che una piazza è una galleria: ma francamente non si sa da dove venga né dove vada, perché finisce contro la torre, la quale a sua volta finisce contro la ferrovia: con quella problematica strada lungo il fascio ferroviario che, per quanto ho capito, disimpegna un parcheggio di 600 auto più la stazione autobus.
Si vuole un esempio di piazze vere? Sono quelle di Sarzana: belle in tempo di mercato o di mostre dell’artigianato, o nei convegni collettivi; bellissime quando, dopo la pioggia, sono vuote e silenziose, con il selciato luccicante come un organismo vivo.
Perché fare una galleria che nasconde il sole e aggiunge ombra ad ombra: all’ombra massiccia e greve della torre si aggiunge la luce filtrata della copertura e l’ombra ‘devitalizzata’ dei due notevoli edifici che la fiancheggiano? Se accanto ci fosse una piazza vera, aperta e solare, sarebbe tutto diverso. Ma non c’è.
Non c’è neppure un cenno alle energie alternative e non c’è uno spazio alberato nel nucleo torre-galleria-stazione autobus, perché il grande parcheggio sotto la torre e sotto la galleria non consentirà se non pianticelle decorative.
Non era meglio cogliere l’occasione per prendere spazio: e collegarsi al di là della ferrovia, dove Sarzana, divisa dal fascio ferroviario, potrebbe cercare forme e simboli di un nuovo senso urbano? di una città non più divisa?
Perché non avere il coraggio di ricominciare? inaugurando un tempo di vera partecipazione dei cittadini alla definizione di nuovi spazi urbani e di una nuova città di Sarzana? cioè dimezzando le volumetrie, cambiando le consegne all’architetto Botta e chiedendogli di mettere il suo ingegno al servizio della Città?
Silvano D’Alto
architetto, professore di Sociologia urbana all’Università di Pisa, membro del consiglio della Fondazione Giovanni Michelucci di Firenze